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1.26.23

Mono no aware (物の哀れ),the pathos of things, and also translated as an empathy toward things, or a sensitivity to ephemera, is a Japanese idiom for the awareness of impermanence (無常, mujō), or transience of things, and both a transient gentle sadness (or wistfulness) at their passing as well as a longer, deeper gentle sadness about this state being the reality of life.

J.T., wikipedia

1.14.23

My philosophy, in essence, is the concept of man as a heroic being, with his own happiness as the moral purpose of his life, with productive achievement as his noblest activity, and reason as his only absolute.

Ayn Rand, Atlas Shrugged

10.24.22

L'altro giorno ho visto mio nonno.
Prima lui.
Poi la sua ombra.
Poi l'aria dietro di lui.
Poi è sparito nella calca e non l'ho più visto.
Il frastuono della chiesa la domenica mi ha riportato al presente.
Ci sono tutte le famiglie del mondo.
Qui ci venivo da bambino e forse allora anche la mia famiglia era qui.
Tutti i bambini del mondo si assomigliano e questi sono uguali a quelli che conoscevo.
Le loro madri li abbracciano allo stesso modo.
Lo sguardo misto di preoccupazione e amore infinito.
Ogni bambino sono io.
Ogni famiglia è la mia.

Ora si torna a casa.
In quella casa ci sono tutti quanti.
Lo zio argentino che non ho mai visto ha bussato alla nostra porta.
Mi ha detto che anche da lui c'è sempre spazio. Che Buenos Aires è a un soffio di vento. Che a Plaza de la Constitucion non si è mai soli.
Ci sono piani infiniti.
Al tredicesimo ci sono tutti gli zii.
E poi sale e sale fino all'ultimo uomo del mondo.
Siamo entrambi uomini e questo ci basta per mangiare insieme ogni tanto.
Succede che qualcuno si aggiunga e la casa sale e cresce.
E tutti allungano i tavoli.

Fuori dalla chiesa uno strano gatto miagola e continua a fissarmi.
Fila via dritto come un fuso nella nebbia mattutina.
Lo seguo.
Nel mentre quel gatto diventa un altro gatto.
Poi altri 10 e altri 100.
Siamo in uno spiazzo in mattoni rossi nel mezzo di una cittadina di campagna.
Il paese dorme e sento delle campane lontane.
Un piccola porta si schiude dal muro amaranto.
Si allarga e restringe pulsante.
Ora è grande quanto un gatto.
Allora mi rimpicciolisco anche io e divento uno dei mille gatti di questa piazza.
Entro in un piccolo santuario in legno.
C'è solo una piccolo rialzo con migliaia di cuccioli che dormono.
Sopra di loro un busto in legno intarsiato della Madonna che veglia sul loro sonno.
Gira lentamente lo sguardo su di me.

Bisogna essere disposti a lasciar entrare tutti i pericoli del mondo.
Pregare che il mondo sia clemente con ciò che gli lasciamo.
Più clemente che con noi.
Che la riva sia lieve a chiunque vi cammina sotto la madre Luna.
Che l'acqua sottile levighi e smussi i tuoi piedi.
Che i massi facciano lo stesso mentre cammini dolcemente.
Che il maremoto e l'acquazzone ti colpiscano quando sarai saldo e con l'occhio fisso verso il filo d'orizzonte del mare.

Ora questi gatti sono pronti per uscire dalle loro piccole porte di legno.
Torneranno per piangere ridere e rendere grazie.
Il gatto dai mille gatti mi riporta nella nebbia.
Un sottile spiraglio di luce sbuca da dietro la chiesa del paese.

Puoi aiutare tutti quanti ma salvare uno solo.
Sparisce nelle foglie portate dal vento.

Ho portato il pane su e giù da Montesacro.
Tornavo la domenica mattina in un sole simile a quello che si intravede qui ora.
Nel torpore del mattino con poche ore di sonno celebravo l'aiuto e la felicità del mondo.
Poi tornavo sotto le lenzuola leggere e dormivo fino a sera.
Mi svegliavo silenzioso e credevo di essere l'unico sulla terra.
Si increspava la fronte e pensavo alle fronde degli alberi fuori dalla finestra, al vento caldo e al futuro di qualcuno.
Di qualche faccia con un nome e un cognome come tanti altri che sorrideva ai figli la sera tornando un po' più tardi del solito.
Poi mi liberavo anche di quello, anche degli alberi leggeri e dal vento serale.

Per pochi secondi vedevo la mia faccia e sentivo il mio nome e cognome.
Facevo esattamente quello che sognavo.
E non dovevo salvare più nessuno.

Matteo Regge, 23

September '22

Sotto il sole torrido di un estate di anni fa, scalfita dalla brezza e dallo sfrusciare dei miei vestiti leggeri contro gli arbusti.
Una qualche tranquillità naturale, un piccolo squarcio surreale di frutti e insetti colorati a inseguirsi nelle fessure della boscaglia.
Si fa presto con la testa che vaga a ritrovarsi persi in una foresta giapponese, indossare un berretto colorato e inseguire i ciottoli tondoli e levigati di un sentiero severo.
Si fa presto a non voltarsi mai verso la città e inseguire una sottile pendenza verso l'alto che sa di fuga e di aria pulita.
Una distesa orizzontale che si perde nel cielo e una leggera salita sotto i piedi.
Un percorso infinito verso l'orizzonte sterminato che sale e sale.
In questi chilometri di paura sentire dolcemente il sapore dell'aria più pura che inebria i polmoni.
Ricordi anche tu quel faro ?
Nella notte di tempesta e luce e tuono e lampo trovarsi a respirare l'aria del mare e sentire l'ebrezza salata e i polmoni liberi.
Forse anche allora era così.
Le nubi di sopra, le onde di vento nell'erba e i passi silenziosi e innocui nella sacralità di un tempio e di una religione che osservo con curiosità e di cui imito qualcosa timidamente.
Poi quel destino sacro e imperscrutabile bussa alla porta di legno dolce e sussurra qualcosa.
Riaprire gli occhi dopo un sussulto e nelle urla messicane trovare una bambina che fugge e un incendio che sale.
Cerca la madre ma lei non è qui.
Diventa un uomo a cavallo che insegue il tramonto nei canyon di detriti e polvere.
Insegue la promessa del padre.
Trovarsi a occidente quando entrambi avranno finito. Solo lì poter giacere e riposare.
Nelle strette case delle vie di Tokyo si ricorda cosa vuol dire invecchiare.
Ce lo si dice piano tra adulti prima della cena.
Per i bambini c'è il silenzio della casa dei nonni, le buonanotti e la mano la mattina prima della scuola.
Ogni metro di orizzonte che guadagno è anche loro ?

Me lo hai detto tu che la campana suona anche per me.
Quando poi ti sei trasferito a Roma per sempre ho sperato che la campana suonasse per il mondo intero.
Che il rame e lo stagno gridassero insieme.

Una scusa in meno per proseguire.
Per fare un altro passo.
Lo ricorda anche il Monaco della grotta.
Esce dalla penombra e si siede di fronte a me.
Si dice da queste parti che non abbia mai parlato con nessuno.
Nato e vissuto in questa cava.
Ha conosciuto solo la fame e la sete.
Si è cibato di radici e ha bevuto l'acqua del torrente orizzontale.
Tutti i monaci sanno che il silenzio è l'unica precondizione per dire qualcosa che non sia sfuggevole come il petalo del pesco.
Il monaco sa di dover morire.
Sceglie di farlo seduto con una posa diritta e dignitosa. Così gli è stato insegnato dalla gru e dal bamboo.
Non dice nulla.
Si accascia dolcemente.
L'alba che sorge porta via la sua polvere e lo porta dove ognuno, come lui, abita e parla il silenzio.

In quella mancanza di parole immaginarti, pensare a quelle confuse negli ultimi momenti.
Poi ancora i rantoli, la tosse e il dolore.
Le grida di impotenza e l'umiltà infinita nel tornare bambino.
Solo nostra madre può toglierci dal silenzio.
Ed è nostra madre a riportarci.

Se siano mille o milioni i passi che ho percorso è difficile da dire.
Eppure ora sono gli ultimi

Stai sempre nelle vite degli altri mi avevi detto.

Io ora sono qui.
Sono salito per chilometri e chilometri in questa pianura verticale.
Dove si cammina e cammina e senza accorgersi si scala qualcosa.
La sommità di questa montagna piatta è mia ora.
Ma anche tu sei qui.
Ti siedi accanto a me nella casa di campagna della nonna.
Passi le dita nei miei capelli arricciandoli e lisciandoli.
Non era in nessun racconto o film.
Nessuna storia umana o tragedia.
Era qui con te a mangiare i mirtilli.

Matteo Regge, Montagna piatta

August '22

Ascoltami, tu e me e noi e gli altri
non lasceremo mai le fronde del salice
che sguscia via dal Leviatano
e dal suo piccolo specchio
d'acqua placida e mutevole

A predicarci il wu wei
e raccontarci di sere di brezza
le tranqullita lontane
che non sono piu nulla
se non il racconto di vecchie storpie

Quanto fosse rarefatto il tempo
delle nostre estati
e dei giochi di luce cangianti
che solleticavano la palpebra
che cercava l'ombra e la siesta

Ergersi contro le mura di queste
solitudini pomeridiane
era un gesto titanico allora

Eppure nessuno mai
il coraggio di battere il sentiero
via dal rudere nelle campagne aride

Come la rugiada che appare e scompare
svegli e sofferti nel mattino
manchevoli e indolenti
nelle sere d'estate e ciliege

Poi nel bosco e nel ruscello
un fragore di lampo
il cielo sereno e fermo

Tu, nemmeno il saluto
per saltare
oltre le piccole pozze d'acqua

Si dice dalle nostre parti
che le dighe naturali resistano per sempre
lo sanno bene i piccoli animali
che ivi abitano

L'acqua invece
innaturale com'è
ogni tanto quando si accumula
sceglie di rompere e fuggire
verso il vento e il mare

Matteo Regge, Ryu

March '22

La polvere della terra
è diventata il primo uomo
il primo uomo
nella polvere
ha generato ogni altro uomo

Uno degli uomini
nello spazio infinito e uguale
fu Jorge Bruno Ramirez
che fu padre di una donna
che divenne mia madre
e questo lo rese mio nonno

Chi nasce nella terra
cresce nella terra
e vive per la terra
ha, forse, come unico sogno
quello di vedere la sua progenie
impugnare la terra
e fuggire nei palazzi
di sabbia e fuoco

Ho passato tutta la vita a fuggire la terra
Ora che sto per impugnare una pergamena
La terra è tornata a prendersi mio nonno
e il suo sogno

Saremo polvere anche io
e il mio pezzetto di carta
Torneremo allo spazio infinito e uguale
Dove giacciono tutti i pezzi di carta
Io
mio nonno
e ogni altro uomo

Matteo Regge, Laurea

March '22

Il gabbiano bianco sosta per un attimo dal grande volo, gli occhi grigi di gelo, quelli di ogni gabbiano che abbia mai fissato un uomo solo.
Il lungomare -allora rubato all'alba- quello delle piccole conversazioni e delle tante speranze e poi dei silenzi e delle intimità rubate.
Surreale allora, è una sfida oggi, nel lunedì più freddo di novembre che sa di maledizione anche baciato dal mare e cullato dalle radio più vecchie del grande gigante Vesuvio.
Siamo soli io e lui a scambiarci racconti di mare e di terra.
Precipitati nella solitudine di un molo abbandonato.
Intuisce che non ho nulla.
Che condivido con lui un pezzo di pane che resta un ricordo di ciò che casa può essere.
Solo rimasuglio nella grande fuga del anno corrente.
Quella dalla mia fredda cittadina.
Quella dalle correnti che ascendono via dagli alberi degli uomini ai venti dei fratelli uccelli di mare.
L'occhio di questo padre per suo figlio e la grida inscenate sono lo spettacolo che si spiega dinnanzi al mare di novembre.
Mal comunicare e infervorarsi.

Perché vuoi tornare a momenti perduti ?
E poterti dire che è la paura che sia tutto qui, che questa felicità sia tutta la felicità.
Che il suo sorriso sia ogni sorriso.
Che non esista altro per sempre.
Che la Grande Rivelazione è un momento e nessun presagio mai.
Che le coperte sgualcite da mattina estiva affettuosa-veli di marmo-, i vestiti sparpagliati -macchie impressioniste- sono il quadro riposto in un piccolo mobile in soffitto vicino alle tubature, erose dal sangue di casa.

E diventa poi facile ritrovarsi in un vicolo in salita, lucido di acqua piovana, ficcarsi le mani in tasca e camminare verso questi occhi di uomini attorno a me.
Si cerca qualcosa da svelare nel loro vivere metodico, la città appesa sulle guance le slancia verso terra, sono qui da millenni e trovarli solo ora è una scoperta monumentale.
La paura di contaminare una realtà contenuta in se stessa, un mondo nel mondo, una raccolta di miti e narrazione e palesare la mia estraneità.
L'antidoto è da trangugiare velocemente, stare zitti e farsi cinepresa silente.
E tenere la mano ferma.

Questo il nostro gioco.
Ricordarsi delle realtà silenziose che la mattina facevano capolino da dietro la porta d'ingresso.
Fermi.
Giocare a immaginarci marinaio e cameriera che hanno solo un ora prima di ripartire.
E poi ricordarci di avere mille altre vite.
E allora spenderle a guardare tutto ciò che di umano resta fuori dal camminarti poco dietro a contemplare le possibilità.

Resta il Pensiero Angoscioso, spigola silenziosa che sguscia tra gli scogli.
Non avere idea di cosa farne.
L'occhio fisso gelatinoso.
Non dolore ne speranza, ma una gentile reminiscenza che nel crepuscolo dietro al Grande Colle coglie un momento debole.
Amarti ?
E il resto del mondo ? Raccontava un poeta forse persiano che da qualche parte nelle Cicladi, viveva una razza curiosa di esseri umani.
Erano soliti dimenticarsi ogni cosa al calar del giorno.
Ogni uomo e ogni donna all'alba, sollevato dal vento mediterraneo, si faceva consapevole.
Sceglieva ogni mattino la stessa occupazione e al calar del sole si rifugiava nella solita dimora innamoratosi della stessa persona.
Dice quello stesso poeta che pochi di loro in un momento di follia, o forse di illuminazione, abbandonarono quelle isole.
Insediano da allora queste nostre terre mediterranee.
Calo la mano, squame-gioelli d'argento, scelgo e scelgo di essere qui.

Ancora niente Bibbì ?
Non è colpa mia Maestra Sara, sapevo tutto fino a stamattina. Sono nato così.
Devo ricrearmi tutto daccapo ogni volta.
Scegliere oggi è uccidere ogni domani.
Non dire così Bibbì.
L'amore di una maestra è per sempre.

Matteo Regge, Napoli

4.25.22

Then the snow started falling
We were stuck out in your car
You were rubbing both my hands
Chewing on a candy bar
You said ain't this just like the present
To be showing up like this
As a moon waned to crescent

Bon Iver, Blood Bank

4.11.22

The temple bell stops
But the sound keeps coming
out of the flowers

Matsuo Bashō

5.2.22

When sorrow lays us low
for a second we are saved
by humble windfalls
of the mindfulness or memory:
the taste of a fruit, the taste of water,
that face given back to us by a dream,
the first jasmine of November,
the endless yearning of the compass,
a book we thought was lost,
the throb of a hexameter,
the slight key that opens a house to us,
the smell of a library, or of sandalwood,
the former name of a street,
the colors of a map,
an unforeseen etymology,
the smoothness of a filed fingernail,
the date we were looking for,
the twelve dark bell-strokes, tolling as we count,
a sudden physical pain.

Eight million Shinto deities
travel secretly throughout the earth.
Those modest gods touch us--
touch us and move on.

Jorge Luis Borges, Shinto

Late '20

Fu nella fredda periferia canadese che tu
mi chiedesti di regalarti qualcosa di mio
non avevo nulla con me e ti diedi
la felpa che indossavo

me ne andai senza dire una parola
avvolto dal gelo e dal pensiero che non era a te
che volevo lasciarla

e come le nostre chiacchere da pochi secondi
sparirono nell'inverno tutti i propositi
lasciarono spazio ai bisogni
e alle piccole solitudini invernali

e io che zoppo menavo le vie innevate per
inseguire un'idea di contatto
o momento di tenerezza
immaginato persino

fuggivo da te
dal vecchio
dal peso

mi ritrovai spogliato nella neve
un cervo con occhi da uomo
mi disse che il mio tempo finiva

anni dopo mi scrivesti qualcosa di dolce
e aggiungesti che avevi provato ad ucciderti
ma che tra i dolori
riservavi un ricordo affettuoso di noi
e di quel regalo quando ci conoscemmo

quello stesso regalo
che ora intravedo nel soppalco
così lontano da te
nel tempo e nello spazio
è il monito di ciò che vorrei
e non sono

Matteo Regge, Il cervo